Sto combattendo con il vuoto da martedì sera. Mi ha preso all’improvviso, entrandomi dentro e trascinandomi in fondo senza darmi possibilità di riemergere. Ho pianto tutte le lacrime e cercato di dare a me stessa le ragioni della razionalità. Ma, come è normale che sia, non ha funzionato. Perché quando il giorno diventa all’improvviso buio, anche la fede vacilla, e serve tutto il coraggio che possiamo avere nell’animo per non cadere. Per non perderci.
C’era il sole martedì pomeriggio. Ero ferma, davanti a un portone, in attesa che l’orologio segnasse le 15:30, per salire al mio appuntamento. Ho risposto al telefono senza pensare, poi ho sentito la voce di mia madre chiamarmi per nome. È bastato questo per spegnere la luce in pieno giorno. E darmi un brivido di freddo che non ero pronta a ricevere. Era la telefonata che non volevo ricevere.
“Ha avuto un incidente in macchina, è molto grave”. Mio nonno Alessandro non avrebbe mai rinunciato a guidare, non voleva sentirsi vecchio. Stava bene, fisicamente in gran forma, mentalmente lucido, facevi fatica a credere che quel signore alto con gli occhi azzurri azzurri avesse davvero quasi un secolo. Da sette anni, da quando mia nonna Irma lo aveva lasciato solo dopo un periodo di malattia, viveva lontano dal suo paese di nascita, dove – diceva – ormai i suoi amici erano tutti morti. Però ci tornava spesso, percorrendo da solo la strada tra la Garfagnana e la costa, per arrivare lì, a Rosignano Marittimo. Il luogo dove ho passato tutte le mie vacanze estive da 1 a 17 anni. Il luogo dove ho passato con lui moltissimo tempo, a capire cose della vita che nessun altro mi aveva insegnato. Mio nonno Sandro era una persona buona d’animo. Irascibile, a tratti, da buon toscano. Ma garbato nei modi ed educato alla vita come solo gli uomini di un tempo sapevano essere così spontaneamente. Era nato nel febbraio del 1921, a ridosso della prima guerra mondiale, ultimo di nove fratelli. Aveva studiato per il seminario, per poi fuggire dall’idea di quella vita e darsi a tutt’altro. Ma di quegli anni aveva tenuto a mente tutto: il latino che gli serviva ogni tanto per stupire i giovani preti del suo paesino d’adozione. Interi brani dell’inferno dantesco e poi l’Iliade e l’Odissea, che poteva declamare andando avanti un’ora buona, se i suoi interlocutori glielo lasciavano fare. Amava la conoscenza. Il sapere e lo studio. Amava parlare, capire, spiegare. Amava vivere, nella semplicità delle cose, e amava la sua famiglia.
Aveva visto lontano spostandosi a Milano con la famiglia negli anni ’50. Ma poi era tornato in Toscana, e qui è rimasto, sino all’ultimo giorno, martedì scorso, quando un urto frontale sulla strada di casa lo ha spezzato in due, al volante della sua auto, in quello che io voglio credere sia stato un attimo – intenso, feroce forse, ma solo un attimo. Perché non voglio pensare che abbia sofferto. Non voglio credere che abbia avuto la percezione di andarsene così, senza salutare nessuno.
Non voglio credere che sia morto – ecco. Lo so che è infantile e non mi vergogno a dirvi che mentre scrivo le lacrime continuano a scendere, infinite, in silenzio. Ma non potevo non salutarlo. non mi basta piangere sopra una bara un corpo trasfigurato.
Queste righe resteranno il mio saluto per l’uomo che mi ha cresciuto quando mio padre non c’era. Per il nonno che mi ha insegnato tutto quello che so di agricoltura, di stagioni, di frutta e verdura. Che mi ha mandato nell’orto a strappare le erbacce e a cogliere i pomodori caldi di sole, da bambina. Mi ha fatto rigovernare i polli e aiutare a mettere in bottiglia i pomodori maturi. Staccare le more dai rovi e riempire ceste di vimini colme fino all’orlo. Imparare a nuotare e ad andare in bicicletta. A vivere apprezzando la campagna, dalla quale lui non voleva separarsi. E alla quale ora è tornato, per sempre.
Io lo sapevo, in fondo al cuore, che la sua vita non avrebbe potuto essere così ancora per molto. Sapevo che ogni giorno era un dono, e che non ne stavo approfittando abbastanza. Sapevo tutto, e non mi stupisco per il dolore che questa perdita mi ha creato. Per il vuoto che non riesco a colmare. Perché pensavo che avrei saputo essere forte. ;Ma mi accorgo di non esserne capace interamente.
Me lo aveva detto lui il giorno del suo novantacinquesimo compleanno, lo scorso febbraio, seduto sul divano di casa sua, lo stesso dove mi sedevo io a nove anni, mangiando albicocche e leggendo fumetti. Perché sono ancora qui? Perché non mi chiamano? Avevo sorriso, e gli avevo accarezzato la mano vecchia, con uno di quei gesti che si fanno quando non c’è una risposta serena a una domanda triste. “Perché non è ancora l’ora” avevo risposto. Ma lui lo sapeva che il mio sorriso era solo un modo per non farlo sentire triste. E da uomo intelligente e sensibile qual era, aveva risposto con la sua solita frase “già, io devo campare almeno sino a 130 anni”. Poi avevamo cambiato argomento, come ogni volta. Per il compleanno, a pranzo, ci aveva portato tutti a mangiare in un rifugio in montagna, appena sopra casa sua. I bambini avevano giocato a palle di neve. Lui si era seduto a capotavola, capostipite di noi tutti, e ci guardava e pensava che tutti insieme era difficile poterci avere intorno ad un tavolo. Lo avevo pensato anche io. Ma non avevo dato troppo peso all’idea che potesse essere l’ultima volta, perché ce n’erano state altre, prima, e altre avrebbero potuto esserci ancora. Invece no.
Gli telefonavo spesso. E lui chiamava me. L’ultima volta che abbiamo parlato è stata domenica scorsa. Volevo vederlo prima dell’estate, ma lui a Milano non veniva più volentieri. La città era cambiata troppo da come la ricordava. Era venuto l’anno scorso, e aveva dormito a casa nostra, nella nostra piccola stanza degli ospiti. Domenica gli avevo detto che saremo andati ancora prima dell’estate. A vedere il suo orto, i polli, le pecore. A vivere la campagna toscana – come in una delle pagine di Around Florence, che lui aveva letto e commentato per intero. L’ho salutato e gli ho detto “ti mando un sacco di baci, nonno” come ogni volta che chiudevo una telefonata con lui. Lui mi ha detto “ciao amore”. Ecco, sento la sua voce che mi accarezza, come quando da piccola mi faceva salire sulle sue spalle e – uno a uno – mi spiegava i quadri che aveva in casa. Voglio ricordarti così, nonno. Felice e tranquillo. profumato di acqua di colonia dopo la barba appena fatta. Come sarai anche adesso, lo so, in Cielo, insieme alla nonna. Avete vissuto insieme più di sessant’anni. Ora vi attende l’eternità. Siate felici. E stendete la vostra mano da lassù su di noi che restiamo, come avete fatto ogni singolo giorno della vostra vita in terra. Perché ora io ho da restare qui, per crescere i miei figli, per fare la mia strada. per cercare di dare un senso alla vita che ha originato da voi. Ci sarà sempre una fiamma accesa nel mio cuore, qui, per voi. Vi guardo risplendere, nel buio, come due stelle innamorate che ora hanno tutto il firmamento per sé.