Me lo avevate chiesto in tante. Tantissime. Un libro per tornare ad accendere il forno in modo tradizionale, mettersi il grembiule e aprire le pagine su qualcosa di buono, bello e facile da preparare. Non potevo non accontentarvi, perché era un desiderio anche per me. Forse un’esigenza, quella di raccogliere in un solo volume le mie ricette preferite, quelle che non possono mancare quando il clima si fa più freddo e accendere il forno significa scaldare l’ambiente quanto il cuore. Così, un po’ alla volta, le preparazioni sono diventate ricette. Le idee sono divenute immagini. E le immagini fotografie bellissime scattate dall’obiettivo attento e talentuoso di Stefania Giorgi. Per raccontare l’atmosfera delle feste abbiamo impiegato molti giorni di lavoro. Abbiamo preparato l’albero di Natale a luglio (grazie all’aiuto indispensabile di Alberto e Ulrika, di Bohem, a paratico). Ho abitato per mesi nella bellissima casa che è Raw a Milano, a quel numero 10 di Corso Magenta che tante volte ha segnato la mia storia professionale (se passate di lì, entrate e chiedete di vedere le stanze in cui lavoro al primo piano: saranno felici di farlo e vivrete il libro dall’interno).
Ho fatto molta fatica a realizzare questo libro – devo dirlo con sincerità. Non è stato semplice scegliere le ricette, né raccontare i capitoli attingendo alla mia vita privata senza farmi condizionare dall’emozione del racconto. Ma avevo il desiderio, da tanto, di condividere queste ricette con voi. Per poterci mettere il grembiule insieme, entrando ciascuna nella propria cucina, e impastare, decorare, infornare cantando le canzoncine natalizie.
L’uscita in libreria è prevista per il 31 ottobre, in tutta Italia e nelle librerie on line.
Vi lascio le parole che aprono il volume – l’inizio del primo capitolo del mio 18esimo libro. Non vedo l’ora di conoscere la vostra opinione e leggere i vostri commenti. Ma soprattutto di incontrarvi di persona: perché prima che finisca l’anno sarò in tour in diverse città italiane per parlare delle feste. Di biscotti di Natale, di alberi, di glasse fondenti e cucchiaini da dolce. E tutto il resto che vorrete chiedermi. Vi aspetto. E vi ringrazio sin d’ora.
Buona lettura.
CAPITOLO 1 | I BISCOTTI E L’ALBERO
“Un Natale senza doni, non è un Natale” – iniziava così quando avevo sedici anni la mia prima esperienza a teatro. Era il maggio del 1986, mio nonno Sandro per quell’occasione aveva indossato lo smoking, in memoria del fasto degli anni ‘50, quando a Milano era direttore del Lido, e per entrare si richiedeva alla clientela un abbigliamento appropriato. Il teatro era pieno e da dietro le quinte si sentivano le voci una sull’altra, susseguirsi come un fiume pacato, mentre gli spettatori prendevano posto. La mia parte nello spettacolo era quella di Jo March in Piccole Donne, un romanzo che avevo letto sino a impararlo quasi a memoria, per poi decidere insieme al nostro insegnante di letteratura di adattarne una parte a pièce teatrale per la recita di fine anno del liceo. Quella sera il Lirico a Milano era pieno sino al culmine e il mio cuore batteva più forte di come lo avessi mai sentito. Un po’ per via del debutto di una me stessa infagottata in un enorme abito di seta turchese, un po’ per altri motivi che adesso sarebbe troppo lungo spiegare e che avevano ovviamente a che fare con la figura di Laurie Lawrence. In ogni caso, nell’oscurità tiepida di quella sera primaverile, aspettando che il silenzio ci avvolgesse girando la clessidra dei minuti che ci separavano dal momento in cui si sarebbe alzato il sipario, io stavo concentrata lavorando ai ferri una sciarpa di lana rossa, dentro al mio abito ottocentesco, la cuffia in testa, il cuore in esplosione nel petto, e anziché preoccuparmi di tutta la gente che era lì, al di là della tenda cremisi che separava il palco dal pubblico, mi interrogavo su cosa significasse per me il Natale. Incredibile, pensandoci adesso, che non mi fossi mai posta la domanda prima con la stessa intensità. Stavo lì, seduta per terra, immobile come una statua fissando con le pupille spalancate le luci pungenti del teatro e pensavo: “Natale è un albero addobbato con lucine bianche e un vassoio di biscotti che profumano di burro e cannella”.
Non avevo mai riposto molta attenzione nei regali per il Natale – anche se devo ammettere di ricordare come più volte nella mia infanzia Babbo Natale avesse fatto incursione a casa nostra, o in quella dei miei zii, quando andavo ancora alle elementari. I regali di Natale erano sempre arrivati puntualmente incartati ogni anno anche a casa mia. Ma non sono stata una di quelle bambine che scrivevano la letterina spedendola al polo nord. Non una di quelle che credeva nel fatto che questa festa fosse avvolta in qualche modo da una certa magia. Ho iniziato a scrivere le mie lettere più tardi, più o meno intorno ai diciannove anni, cominciando così a intrattenere una lunga e più matura corrispondenza con Santa Claus. E sono stata molto felice di averlo fatto, perché ora che sono i miei figli a scrivergli ogni anno, lui si ricorda di me e mi guarda dal polo nord con grande benevolenza, ricordandosi quella ragazzina fuori moda, vestita di azzurro, che in una sera di maggio gli scrisse mentalmente la sua prima lettera. Forse la più importante. Voleva un albero di Natale tutto suo, da addobbare con lucine e biscotti a forma di cuore e di stella, una casa di cui prendersi cura e una vita piena di cose da fare, con un marito, dei figli e un gatto. Lui un po’ alla volta è riuscito ad accontentarla. E ancora oggi la tiene a mente nei suoi giri sulla slitta capitanata da Rudolph, perché sa che a casa sua troverà sempre un bicchiere di latte e dei biscotti di frolla appena sfornati, impolverati di zucchero a velo.
L’ALBERO GIUSTO
Il mio primo albero di Natale serio arrivò qualche anno dopo. Avevo ventitré anni e per la prima volta una casa tutta mia da addobbare. Non fu un lavoro lungo, visto che l’appartamento superava solo di un paio di spanne i trentadue metri quadrati. Ma fu comunque un lavoro di grande soddisfazione, che richiese un certo impegno e – soprattutto – la ricerca dell’albero di Natale perfetto, perché a me piacciono folti, verdi, in grado di sostenere con i loro rami un certo carico di addobbi. In quei primi anni optavo ancora per l’albero vero, con il vaso e la terra, che cercavo di far sopravvivere con grande amore e scarsi risultati in un appartamento cittadino. Nel tempo, ho capito che un ambiente chiuso e riscaldato è incompatibile con la natura di un abete, e ho deciso, dopo lunghe valutazioni e ancor più innumerevoli ripensamenti da un lato e dall’altro, di optare per un abete sintetico, che mio marito mi ha regalato diversi anni fa, felice di chiudere per un po’ con l’idea di un pomeriggio trascorso tra i vivai della città alla ricerca di qualcosa che potesse valere la mia incondizionata approvazione. Cosa che aveva fatto apparentemente volentieri solo per il nostro primo Natale insieme, come si conviene a un marito che desideri mantenere la pace sotto il tetto domestico. Anni dopo, tuttavia, nel momento in cui avevo espresso la mia idea di acquistare un albero artificiale, che potesse essere sempre lo stesso negli anni, mi aveva apertamente incoraggiato, allungando la carta di credito al commesso in quella frazione di tempo in cui sa che io posso cambiare idea, dicendomi che sarebbe stato felice di farmi quel regalo e accompagnando le sue parole indossando quello sguardo che è un misto di sollievo, saggezza e amore, e che arriva ogni volta che mi decido a fare qualcosa che lui aveva già suggerito diverso tempo prima, e che io avevo deliberatamente ignorato. Ma questa è un’altra storia. [… CONTINUA …]