PROLOGO
Il treno chiuse le porte e sbuffò, fischiando forte sul binario numero 7 alla stazione di Venezia Santa Lucia. Aveva scelto di viaggiare come le era sempre piaciuto fare, con ogni genere di conforto, ma soprattutto circondata dal bello. La guardai un’ultima volta dopo averla abbracciata prima di scendere – il suo viso anziano era incorniciato dalla bellissima finestra blu scuro, bordata di ottone lucidato a mano. Davanti a lei, una tazza da tè, di quelle inglesi in porcellana fine, decorate con fiori color cremisi e abbinate a una teiera con lo stesso motivo. E un quaderno nero con sopra il suo nome e una penna. Un compagno di viaggio che era rimasto immutato a se stesso per oltre settant’anni.
Sorrideva e salutava con la mano da dietro il vetro. L’abat-jour sul tavolo era già stata accesa e lasciava cadere la sua luce calda in un cerchio allungato sotto il paralume color porpora. Era bella, sicura di sé, serena come l’avevo vista tante volte, quando prendeva una decisione e sapeva che era quella giusta. Della bellezza di un tempo, certo, restava solo un alone percepito da chi l’aveva conosciuta prima, e quell’eleganza che stava nel suo portamento. A 95 anni quando entrava in una stanza le persone ne percepivano ancora la presenza e l’aria si raccoglieva intorno alla sua figura, per un istante. La guardavano sempre tutti, uomini e donne, per motivi diversi. Gli uni affascinati dal suo modo di essere e di fare, le altre nell’intento di carpirne il segreto. Lei camminava a testa alta e sembrava non notare nulla, ma io lo sapevo che ne era consapevole, perché vedevo ancora quell’incresparsi appena segnato all’angolo della bocca, a cui non permetteva di diventare un sorriso, ma lasciava che fosse solo un accenno di qualcosa che gli altri non potevano comprendere.
Mi mandò un bacio con la mano, e io feci lo stesso. Se avessi saputo che quella era l’ultima volta che l’avrei potuta guardare in viso con gli occhi aperti non avrei potuto lasciarla andare così dolcemente. Ma non lo sapevo, e se a volte pensavo che avrebbe potuto essere, la parte di me meno pragmatica confinava quest’idea in fondo agli altri pensieri, affievolendola. Così aspettai che l’Orient Express iniziasse a muoversi maestoso, prima lentamente e poi sempre più rapido, sino a vederlo diventare piccolo al termine del binario, cancellando la propria immagine dietro una coltre di fumo bianco oltre l’orizzonte.
Mi incamminai con le mani in tasca e il mento leggermente abbassato, con quel modo di procedere che avevo sin da quando ero adolescente. Il Canal Grande si stagliava alla mia sinistra, placido, stranamente silenzioso. La Serenissima alle otto di sera vive sempre un momento di stacco tra la frenesia caotica del giorno e quella elegante della notte in festa. Il taxi mi stava aspettando dove l’avevo lasciato. Salii a bordo e mi sedetti in fondo, lasciando che le onde del canale facessero da sipario ai miei pensieri. Chiamai mia sorella Ginevra per dirle che era partita, e che sarebbe arrivata a Londra il giorno seguente. Mi confermò che sarebbe andata a prenderla di persona, per portarla a casa. Mandai un messaggio a mio marito, per dirgli che stavo rientrando. Poi chiusi gli occhi, lasciandomi cullare un momento dalla barca, le nocche delle mani sulla pelle fresca dei sedili, la testa appoggiata sul cuscino. C’era odore di mare, mescolato alle note della guerlinade che erano quelle del profumo di mia mamma, da sempre. Con gli occhi chiusi e quello sguardo nella mia testa avrei potuto avere ancora quindici anni. Non era così.
Mia madre morì la primavera seguente, nella sua casa nella campagna francese, dove aveva passato tutto il tempo da quando era rimasta vedova, fatta eccezione per quei viaggi inglesi in cui andava a trovare mia sorella e la sua famiglia. La trovò la governante, addormentata serena nel suo letto, al mattino presto di un mercoledì di fine settembre, con accanto l’ultima tazza di tè che si era preparata, come sempre, la sera prima, e le bozze del romanzo che stava rileggendo prima di mandarlo in stampa. Aveva avuto il garbo di spegnersi con la stessa grazia con la quale aveva vissuto tutta la sua vita, senza essere di peso a nessuno. La seppellimmo ai piedi dell’ulivo in giardino, come aveva sempre chiesto che fosse fatto. Con una croce semplice, bianca, in marmo opaco. Ogni volta che vado a trovarla, in estate, mi preparo una tazza del suo tè preferito e ne verso una parte sul terreno ricoperto d’erba, che lì cresce soffice, pettinata dal vento. Così la beviamo insieme.
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